Edizione:2001/2002
Data pubblicazione:12/03/2002
"Il mostro di Firenze" è il giallo che ha suscitato l'incubo più grande, che ha visto impegnato nelle indagini il maggior numero di magistrati, di carabinieri e di agenti di polizia. A tutt'oggi, nonostante diversi processi, non si è arrivati a una soluzione definitiva di questo intricato mistero. "Chi l'ha visto?" ricostruirà in modo rigoroso e approfondito - con una ricerca esclusiva e piena di elementi inediti - tutte le tappe della inquietante storia criminale che ha tanto allarmato il nostro Paese.
Domenica 15 settembre 1974, a Borgo S. Lorenzo, in località Sagginale, vengono rinvenuti i corpi senza vita di Stefania Pettini e Pasquale Gentilcore. Lei aveva 18 anni ed era segretaria d'azienda, lui 19 e lavorava in un bar. Borgo San Lorenzo si trova a neanche 40 km da Castelletti a Signa, dove si è consumato il delitto del 1968 di Barbara Locci e Antonio Lo Bianco. A mezzanotte circa della notte precedente i due giovani, a bordo di una 127, avevano deciso di fermarsi, per cercare un po' di intimità, lungo una strada sterrata che costeggia il fiume Sieve. I due si erano spogliati; i loro vestiti erano stati poi trovati vicino alla macchina. Mentre erano intenti nei preliminari amorosi l'assassino aveva sparato contro di loro dieci volte. Aveva colpito Pasquale con sei colpi di arma da fuoco, poi l'aveva pugnalato due volte al torace. Stefania, colpita da quattro colpi, era stata sollevata dall'assassino, portata fuori dalla macchina e adagiata a terra. Poi il mostro l'aveva colpita con 96 pugnalate: 70 nella zona pubica, le restanti sul seno.
I carabinieri l'avevano trovata, nuda, vicino alla macchina. L'autoradio della 127 era ancora accesa, dentro la cassetta stava girando a vuoto. La borsetta era stata ritrovata col contenuto rovesciato per terra. Le indagini si erano concentrate su: Bruno Mocali di 53 anni, un sedicente guaritore; Giuseppe Francini, uno psicolabile che si era autoaccusato del delitto, presentandosi spontaneamente ai carabinieri; Guido Giovannini, un guardone, riconosciuto da alcuni testimoni mentre spiava le coppiette nella stessa zona del delitto. I tre uomini erano stati poi rilasciati.
Sabato 6 giugno 1981, intorno alla mezzanotte, in Località Mosciano di Scandicci, a bordo di una Fiat Ritmo color rame targata Firenze ci sono Carmela De Nuccio di 21 anni e Giovanni Foggi di 30, anche loro come Pasquale Gentilcore e Stefania Pettini stanno per incominciare a fare l'amore, quando qualcuno da fuori dell'auto spara otto colpi. Tre proiettili colpiscono Giovanni Foggi e cinque Carmela De Nuccio, mentre dalla stessa mano omicida partono cinque coltellate: tre alle spalle per Giovanni e due al collo per Carmela. Carmela viene tirata fuori dall'auto, non trascinata, ma sollevata; viene adagiata in un fosso dietro la macchina e le viene asportato il pube, proprio quella zona anatomica che otto anni prima l'omicida aveva soltanto delimitato con 70 pugnalate alla povera Stefania Pettini. Anche questa volta è come se non volesse mai toccare il corpo della ragazza, i cui pantaloni infatti pur essendo facilmente sfilabili vengono tagliati col coltello con il quale poi infierisce sul suo corpo. Nessuna traccia, nessun testimone, anche questa volta la borsetta della ragazza è rovesciata a terra.
Ci sono tre elementi in comune tra i diversi omicidi, oltre alla pistola e alle cartucce usate dall'assassino: le vittime avevano trascorso l'ultima serata in discoteca, ed erano state uccise a poca distanza dal locale. L'assassino preferisce colpire di sabato notte, e quando non c'è la luna. A quest'ultimo particolare si può attribuire una spiegazione di tipo esoterico, o più banalmente è riconducibile all'accortezza dell'uomo, che in questo modo rende più difficile il suo riconoscimento. Ogni volta l'omicida fruga nella borsetta della vittima, forse cercando qualcosa da portar via come macabro souvenir. Il delitto viene collegato a quello avvenuto sette anni prima, si comincia a parlare del Mostro di Scandicci.
La vera novità è che questa volta finalmente c'è un indagato: si tratta di Enzo Spalletti, un occasionale guardone: qualcuno aveva visto la sua vecchia Ford rossa parcheggiata vicino al luogo del delitto. Il sospettato fornisce agli inquirenti un alibi sconclusionato; ciò che comunque convince gli inquirenti a lasciarlo in carcere è il fatto che lo Spalletti aveva parlato alla moglie dei due cadaveri e della Ritmo color rame già alle 9,30 del mattino dopo, dicendogli di averlo appreso dai giornali, che in realtà avrebbero dato la notizia solo il giorno successivo al ritrovamento. Enzo Spalletti resterà in carcere sino al 20 giugno del 1982.
Sono passati solo quattro mesi dall'ultimo delitto. E' la notte di giovedì 23 ottobre 1981. E' sempre una notte di novilunio, sono le 23 e 30 circa, a bordo di una Golf nera targata Firenze, parcheggiata in località Travalle di Calenzano, Stefano Baldi di 26 anni e Susanna Cambi di 24 si stanno scambiando effusioni amorose. I due fidanzati non faranno in tempo ad arrivare ad un congiungimento carnale vero e proprio. Anche questa volta, qualcuno destinato a restare nell'ombra sopraggiunge all'improvviso: esplode diversi colpi d'arma da fuoco, sempre con la ormai tristemente famosa Beretta calibro 22, poi infligge delle pugnalate sul corpo di entrambe le vittime per avere la certezza della loro morte. Porta i due cadaveri fuori dalla macchina, e pratica sulla giovane il macabro rituale dell'escissione.
E' il 19 giugno 1982, sabato notte, sono le 23,45 circa a Montespertoli - Località Baccaiano, piazzola vicino alla Provinciale "via nuova Virgilio". Antonella Migliorini di 20 anni, operaia in una ditta di confezioni, e Paolo Mainardi, operaio meccanico di 22 anni, sono nella loro macchina, una Seat 127 blu targata Firenze, hanno appena finito di fare l'amore, qualcuno sopraggiunge ed incomincia a sparare. Antonella muore, Paolo rimane in vita, anzi riesce a rimettere in moto l'auto, ad accendere i fari e ad innescare la retromarcia. Purtroppo la macchina finisce in una cunetta e Paolo non riesce a uscirne; il mostro è padrone assoluto della scena, mantiene i nervi saldi, anzi spara subito ai fari, ricreando il buio necessario per poter agire, dopo di che spegne il motore e strappate le chiavi dal cruscotto le scaraventa molto lontano. Ma la strada è trafficata e deve desistere dal triste rituale delle escissioni. Ad un certo punto l'assassino decide addirittura di scappare senza accorgersi nemmeno che Paolo Mainardi è ancora in vita. Il giovane comunque morirà la mattina dopo in ospedale senza più riprendere conoscenza.
Nella tarda mattinata stessa in cui fu scoperto il nuovo duplice omicidio, il 20 giugno 1982, il sostituto procuratore della Repubblica Silvia Della Monica, incaricata dell'indagine, convocò nel suo ufficio i cronisti di tutte le testate e chiese loro di scrivere una piccola bugia: che Paolo Mainardi era arrivato ancora vivo in ospedale e che, forse, aveva avuto il tempo di dire qualcosa sul suo assassino prima di morire. Tutti accettarono. Lo scopo, o meglio la speranza, era che l'assassino, preoccupato, facesse una mossa falsa. A uno dei soccorritori della Croce Rossa che avevano accompagnato Paolo Mainardi all'ospedale arrivarono effettivamente due telefonate da parte di una persona che prima disse di essere della procura, poi cambiò versione sostenendo di essere proprio lui l'assassino: voleva sapere che cosa avesse detto il giovane prima di morire. Nel 1984 l'uomo ricevette un'altra telefonata, in una pensioncina di Rimini dov'era in villeggiatura. Chi poteva sapere che si trovava lì?
Dopo qualche giorno dal delitto, il maresciallo dei Carabinieri Francesco Fiore si ricorda dell'omicidio di Barbara Locci e Antonio Lo Bianco, commesso nel '68 quando era in servizio a Signa e lo mette in relazione con i delitti del Mostro. Viene eseguita la comparazione tra i bossoli, e si scopre che i proiettili di marca Winchester con impressa sul fondello la lettera H sono stati sparati tutti dalla medesima arma, una Beretta calibro 22. Le cartucce risultano provenire da un'unica scatola da cinquanta pezzi. La pistola usata dal mostro è dunque la stessa che aveva ucciso nel 1968 Barbara Locci e Antonio Lo Bianco. Da quella scoperta sarebbe nato un nuovo filone d'indagine che sarebbe poi stato conosciuto come la pista sarda. A rileggere quattordici anni dopo il delitto del '68 fu subito evidente che Stefano Mele, il marito della donna assassinata, non poteva essere mostro, perché sia nel '74 che nell'81 si trovava in carcere. A quel punto gli investigatori pensano che davvero Stefano Mele doveva avere avuto un complice, un uomo che poi continuò ad uccidere.
Nel luglio del 1982 c'è una svolta nelle indagini. Scoperto che tutti i delitti, dal 1968 al 1982, erano stati consumati con la stessa arma, è evidente che Stefano Mele non poteva essere "il mostro", visto che nel 1974 e nel 1981 si trovava in carcere. Dunque è chiaro che la notte in cui furono uccisi Barbara Locci e il suo amante, Mele doveva aver avuto un complice.
Nel 1982 Stefano Mele torna ad accusare Francesco Vinci. Dice che suo figlio Natalino gli aveva confidato che quella notte, mentre Francesco Vinci dopo l'omicidio lo stava accompagnando fino alla casa del De Felice, gli aveva detto di non dire niente a nessuno altrimenti avrebbe ucciso lui e suo padre. La stessa minaccia che Stefano Mele - mentre si trovava in carcere - avrebbe ricevuto da Francesco Vinci se non avesse ritrattato l'accusa contro di lui e non si fosse addossato il delitto. Francesco Vinci viene arrestato il 15 agosto del 1982. Gli inquirenti trovano un elemento che lo collegherebbe a uno dei delitti: una segnalazione che proveniva dai carabinieri di Civitella Paganico. Il 20 giugno del 1982, all'indomani del duplice delitto Mainardi-Migliorini, era stata notata la Renault 4 di Franesco Vinci "infrascata" sulla strada che da Montespertoli in linea d'aria portava verso Grosseto.
Durante una visita a Stefano il fratello Giovanni si fa sorprendere a passargli un bigliettino nel quale gli suggerisce che cosa dire ai giudici circa la presenza di Mucciarini nei fatti del '68. Dopo gli interrogatori e le intercettazioni telefoniche il giudice Rotella ritiene di avere raccolto elementi sufficienti per sostenere che l'omicidio del 68 fu un delitto di clan. Proprio in quei giorni Stefano Mele, adeguandosi alla volontà del clan Mele, torna ad ammettere la sua responsabilità per l'omicidio dei due amanti, Barbara Locci e Antonio Lo Bianco, accusando sempre di correità Francesco Vinci.
Francesco Vinci risponde all'accusa dicendo che con la Renault 4 stava andando a Grosseto, la macchina si era rotta e lui l'aveva abbandonata. Antonio Vinci, il nipote prediletto di Francesco, recentemente racconta però un particolare inedito: "quella notte c'ero anche io a nascondere la macchina, lo facemmo per una storia di donne sposate e di mariti gelosi...". Perché Francesco Vinci non lo aveva chiamato in causa come testimone?
Il 9 settembre del 1983 si consuma il quinto delitto del mostro. A via di Giogoli, in località Galluzzo, due giovani uomini tedeschi - Whilhelm Horst Meyer di 24 anni e Uwe Rusch Jeans - si sono accampati in una piazzola con il loro furgone camper Wolkswagen. E' una notte senza luna, alle undici e mezzo i due giovani stanno dormendo quando l'assassino comincia a sparare, prima attraverso i vetri, poi entra nel camper e li finisce. Uno dei ragazzi, dalla corporatura esile e con i capelli lunghi, probabilmente è stato scambiato dal mostro per una donna. L'assassino sembra avere acquisito una incredibile sicurezza: a poche decine di metri dal luogo del delitto quella notte si stava svolgendo una festa all'aperto in una villa, con moltissimi invitati.
Ma il 9 settembre Francesco Vinci si trova in carcere: non può essere stato lui a sparare. Il suo avvocato presenta un'istanza di scarcerazione, che viene respinta. Gli inquirenti pensano a un complice che ha agito su mandato del Vinci per scagionarlo. Una settimana dopo il delitto viene arrestato per detenzione di armi Antonio, suo nipote. Il processo è celebrato per direttissima, Antonio viene scagionato dall'accusa di essere il complice dello zio. Alla fine del gennaio 1984 si assiste a un nuovo, clamoroso colpo di scena. Lo stesso giorno in cui viene scarcerato Francesco Vinci, il nuovo giudice istruttore Mario Rotella fa arrestare Giovanni Mele e Piero Mucciarini, il fratello e il cognato di Stefano. Il giudice Rotella li riteneva implicati nel delitto del 1968. Dai verbali degli interrogatori risultava che Natalino, il figlio di Stefano, la notte del delitto aveva visto uno zio, di cui non ricordava il nome, e lo aveva descritto: era piccolo, aveva una figlia di nome Daniela e lavorava di notte. Disse di averlo visto sparare.
La descrizione corrispondeva a quella di Piero Mucciarini, che faceva il fornaio e quella notte aveva chiesto di essere libero. Negli interrogatori successivi Natalino disse di avere visto anche uno zio paterno; ne aveva uno solo, e si trattava di Giovanni Mele. Il Giudice Rotella a quel punto decide di rinterrogarli tutti. Il primo ad essere ascoltato è Natalino Mele. Natalino riferisce che sua zia, Maria Mele, la sorella più grande del padre, lo aveva consigliato di dire che la notte del delitto dormiva e che quindi non era in grado di riferire nulla. Interrogata a sua volta, Maria appare reticente. I telefoni dei Mele vengono messi sotto controllo e si scopre che tutti, Maria, Teresa, Antonietta e Giovanni, erano preoccupati per i quei nuovi interrogatori. Non vogliono la revisione del processo. Paradossalmente preferiscono che un loro fratello rimanga con il marchio di essere un assassino piuttosto che si vada a rinvangare su quella vecchia storia nella quale il giudice Rotella vorrebbe coinvolgerli.
La vicenda del "mostro di Firenze" è iniziata una sera d'estate di trentaquattro anni fa. Barbara Locci, 32 anni, nata in provincia di Cagliari, viveva a Lastra a Signa, in Toscana, con il marito Stefano Mele e il figlio Natalino. Barbara era conosciuta in paese perché le piaceva frequentare gli uomini; era soprannominata "l'Ape Regina". La sera del 21 agosto 1968 Barbara era uscita con il suo nuovo amante Antonio Lo Bianco portandosi dietro Natalino. Dopo aver trascorso la serata in un cinema, i due avevano raggiunto un luogo isolato nei pressi del cimitero. Mentre il bambino si era addormentato sul sedile posteriore, si stavano spogliando quando qualcuno era apparso nel buio e aveva iniziato a sparare contro di loro. L'assassino aveva poi preso il bambino sulle spalle, e lo aveva portato davanti al un casolare. Erano le due di notte; Natalino aveva bussato alla porta: "La mamma e lo zio sono morti", aveva detto all'uomo che gli aveva aperto.
Due bossoli calibro 22 erano stati trovati all'interno della macchina - una Giulietta bianca targata Arezzo - e altri due accanto all'auto, sul ciglio della strada. Chi ha ucciso i due amanti, e perché? Ancora oggi non è ancora stato chiarito fino in fondo quanto accadde quella notte. Gli otto colpi che uccisero gli amanti furono sparati dalla stessa pistola con cui il "mostro" ucciderà tutte le sue vittime. Tra le sei e le sette di mattina una pattuglia dei Carabinieri aveva raggiunto l'abitazione di Stefano Mele, marito di Barbara, e l'aveva trovato vestito di tutto punto con una valigetta in mano. L'uomo, 48 anni, è originario di Fordongianus, un paese in provincia di Cagliari. In Sardegna aveva fatto per trent'anni il servo pastore tra le montagne della Barbagia. Con i genitori e le sorelle si era trasferito in Toscana nel 1958.
La stessa mattina del 22 agosto era iniziato l'interrogatorio; per prima cosa Stefano Mele aveva indicato il suo alibi: già a partire dal pomeriggio precedente era rimasto a casa perché non si sentiva bene, e due persone erano andate a trovarlo. Si trattava di Carmelo Cutrona e di Antonio Lo Bianco, entrambi amanti di sua moglie. Durante l'interrogatorio Mele aveva fatto il nome di Francesco Vinci, un altro amante di sua moglie. Vinci era stato arrestato nel novembre del 1967 a seguito della denuncia per concubinato fatta da sua moglie: la donna lo aveva accusato di aver abbandonato lei e i figli per vivere con Barbara Locci. Uscito dal carcere Vinci aveva ripreso subito la relazione con l'amante, tornando anche a vivere a casa sua. Tutti a Lastra erano a conoscenza della gelosia morbosa di Francesco nei confronti di Barbara, e del disprezzo che provava nei confronti di Stefano Mele.
L'interrogatorio era ripreso il giorno dopo, il 23 agosto del 1968; in questa occasione era presente anche Piero Mucciarini, l'unico toscano del gruppo, marito di Antonietta Mele, sorella di Stefano. Piero Mucciarini, poche settimane prima del delitto, aveva accompagnato Stefano Mele a Prato per incassare mezzo milione di rimborso da un'assicurazione. Aveva voluto stargli accanto per evitare che l'uomo desse i soldi a sua moglie; in effetti Barbara Locci era solita sottrarre soldi alla famiglia per darli ai suoi amanti. L'ultima cifra che la donna aveva fatto sparire era proprio di circa mezzo milione, equivalente all'epoca a sei mesi di stipendio del marito che lavorava come manovale. La maggior parte di questi soldi era finita nelle mani del suo amante storico Salvatore Vinci, fratello di Francesco. Barbara era stata amante in tempi diversi dei tre fratelli Vinci: Giovanni, Salvatore e Francesco. Sardi, di Villacidro, erano emigrati in Toscana nei primi anni Sessanta.
Improvvisamente, dopo aver indicato agli inquirenti i diversi amanti della moglie come possibili autori del delitto, Stefano Mele ha confessato di essere stato lui stesso ad uccidere Barbara e Antonio Lo Bianco. Nonostante la confessione, non si è mai creduto che Stefano Mele abbia raccontato tutta la verità. L'uomo non ha voluto dire che fine aveva fatto l'arma del delitto, che non è mai stata ritrovata.
Ai Carabinieri Stefano Mele comincia a raccontare di essere stato aiutato da Salvatore Vinci. Dice che lui lo ha accompagnato sul luogo e gli ha fornito l’arma del delitto. Ecco la sua prima versione. Alle le 23 e 20 del 21 agosto, non avendo visto rientrare la moglie e il figlio, si era recato a cercarli. Arrivato nella piazza principale di Lastra a Signa, aveva incontrato proprio Salvatore Vinci, al quale aveva riferito che Barbara era andata al cinema con Antonio Lo Bianco portandosi dietro anche il bambino. Salvatore a quel punto gli aveva detto di farla finita ma lui gli aveva risposto dicendo: “Come faccio senza nulla in mano? Antonio ha pure praticato la boxe.” Vinci gli aveva risposto che lui aveva una piccola arma. Dopodiché lo aveva fatto salire a bordo della sua vettura e insieme erano andati a Signa.
La Giulietta del Lo Bianco era parcheggiata nei pressi del cinema Giardino Michelacci. Dopo aver atteso l’uscita del cinema, vide Antonio Lo Bianco con la moglie che aveva il bambino in braccio. Lui e Salvatore salirono in macchina e li seguirono sino dove la vettura si fermò, appena fuori di Lastra nei pressi del cimitero. A questo punto Salvatore tirò fuori da una borsa la pistola e gli disse: “Guarda, ci sono otto colpi”. Stefano Mele raggiungeva l’autovettura e dopo aver visto sua moglie e Antonio che si abbracciavano scaricava su di loro gli otto colpi della pistola. Suo figlio non si era svegliato durante gli spari ma subito dopo.
Dopo aver sparato, lui aveva aperto lo sportello dal lato guida, sostenendosi con la mano sinistra sul volante, e nel farlo aveva toccato la leva della freccia che così era stata messa in azione. Aveva afferrato la moglie per le vesti e l’aveva tirata su, ricomponendola. A quel punto aveva sentito il figlio che si era svegliato chiamarlo: “Babbo”. Non aveva detto altro o lui non aveva sentito, perché era scappato via. Raggiunta la macchina di Salvatore, gli aveva detto di averli uccisi. Salvatore lo aveva fatto salire in macchina e lo aveva accompagnato sino al ponte di Signa. Subito dopo era di nuovo a casa. Quando i Carabinieri chiedono a Stefano Mele della pistola, lui risponde di averla buttata via dopo aver sparato e di aver ottenuto per tutta risposta da Salvatore, quando glielo aveva detto: “Pazienza”. Conclude quel giorno la confessione dicendo: ”Ho ammazzato mia moglie e l’amante perché ero stanco di vedermi continuamente umiliato. Mia moglie mi tradiva da diversi anni. Però è da qualche mese che avevo deciso di eliminarla”.
Il giorno successivo, il 24 agosto 1968, mentre i carabinieri cercano dappertutto la pistola, senza ottenere risultati, Stefano Mele viene sentito dal magistrato che gli legge quanto il giorno prima aveva dichiarato. Mele conferma ogni cosa escluso un particolare, quello della pistola. Cambia versione e dice che non ha buttato via l’arma, ma l’ha riconsegnata a Salvatore Vinci. Qualche ora più tardi Mele decide però di ritrattare tutto quello che aveva confessato. Messo di fronte a Salvatore Vinci piangendo gli chiede perdono per le accuse che gli ha rivolto. Poi, di colpo, comincia ad accusare il fratello di Salvatore, Francesco Vinci. Dice che Francesco è il proprietario dell’arma e che ha ucciso sua moglie Barbara e che dopo il delitto proprio Francesco ha accompagnato Natalino fino al casolare. Per ultimo ricorda che Francesco gli aveva ordinato: “Il bambino non deve parlare”. Per tre giorni, dal 22 al 24 agosto, Stefano Mele dice tutto e il contrario di tutto.
Una cosa però è certa Stefano Mele era lì, sul luogo del delitto quella notte non solo perché lo ammette ma perché dice cose che solo chi era presente poteva sapere: che la Giulietta aveva una freccia accesa, che il Lo bianco aveva perso una scarpa e che i colpi sparati erano stati otto. Natalino, il figlio, raccontò ai Carabinieri di essere uscito quella sera con sua madre sulla macchina dello zio. Per Natalino tutti gli amanti della madre erano degli zii perché così gli venivano presentati. Quella sera prima di andare a vedere il film erano passati in un bar. Tanto al bar che al botteghino del cinema ricorda Natalino, aveva pagato sempre sua madre. Dopo essere usciti dal cinema aveva visto un uomo, con il quale però non parlarono né la mamma né Antonio. Poi erano saliti sulla Giulietta ed erano andati via.
Una volta arrivati lungo una strada buia, Antonio aveva fermato la macchina. A quel punto sua madre era scesa dalla macchina per fare cambio di posto con lui, che aveva tirato giù lo schienale. I due si erano parlati ma lui non ricorda cosa si erano detti. All’improvviso aveva sentito sparare.In quel momento aveva visto suo padre. Ma non era solo, con lui c’era Piero Mucciarini. Quando gli fu chiesto di dire chi aveva sparato Natalino rispose: lo zio Piero. Dal suo racconto non si può escludere che potesse esservi anche una terza persona che non ha veduto e di cui però raccontò di aver sentito il rumore tra le canne. Alla domanda se quella notte fosse presente anche Francesco Vinci, il bambino rispose con sicurezza che lo zio Francesco non c’era. Natalino raccontò anche che quella notte suo zio Piero Mucciarini lo accompagnò, tenendolo sulle spalle, fino al casolare.
Il processo per il delitto del 68 si svolse due anni dopo. Sul banco degli imputati della corte d’assise di Firenze sedette il solo Stefano Mele, che inaspettatamente si dichiarò di nuovo innocente. Questa volta, però, furono i suoi stessi avvocati a consigliarlo di cambiare versione. Solo ammettendo di essere stato presente, infatti, avrebbe potuto tentare di scaricare le responsabilità maggiori su un eventuale complice. Mele tornò ad accusare Francesco Vinci che, alla prova del guanto di paraffina, era però risultato negativo. In aula sfilarono tutti i protagonisti della vicenda, ma fece sensazione l’apparizione di Salvatore Vinci. Il sardo ebbe l’arroganza di sedersi sulla sedia dei testimoni sfoggiando al dito un vistoso anello: era l’anello di fidanzamento che Stefano Mele aveva donato a Barbara Locci. Gli fu chiesto il perché di quel gesto e lui rispose che la donna glielo aveva a sua volta regalato e che lui ci teneva particolarmente.
Fu ascoltato anche Natalino, ma questa volta il bambino, che era stato affidato proprio allo zio Piero Mucciarini e alla zia Antonietta, disse di ricordare che quella notte aveva visto solo il babbo e nessun altro. Stefano Mele fu condannato come unico responsabile del duplice omicidio a soli quattordici anni di carcere, perché riconosciuto seminfermo di mente. Gli fu data anche una pena accessoria: fu riconosciuto colpevole di avere calunniato Francesco e Salvatore Vinci, gli amanti della moglie.
Sono le 21:40 di domenica 29 luglio 1984, è una notte di novilunio, in località "La Boschetta" sulla provincia Sagginalese tra Dicomano e Vicchio, Pia Rontini, commessa di diciotto anni e Claudio Stefanacci, studente universitario ventunenne, a bordo di una Fiat Panda celeste, sono intenti nei preliminari amorosi. Questa volta l'assassino arriva puntuale all'appuntamento, spara subito su i due, proprio mentre stanno per congiungersi, Non c'è nessuna reazione, Claudio viene ucciso con 4 colpi d'arma da fuoco e 10 pugnalate, Pia viene raggiunta da due colpi di pistola e due pugnalate alla testa. L'assassino scende un altro gradino della scala dell'orrore: alla ragazza, trascinata fuori dalla macchina, oltre al pube amputa anche il seno sinistro.
In quel momento in prigione ci sono Giovanni Mele e Piero Mucciarini; l'opinione pubblica rimane sorpresa dalla decisione del giudice Rotella di non scarcerarli dopo quel delitto. Usciranno dal carcere solo alcuni mesi dopo. Nel 1984 gli inquirenti e il giudice Rotella pensavano che la Beretta non potesse essere uscita dalla cerchia delle persone coinvolte nell'uccisione di Barbara Locci e Antonio Lo Bianco. Quindi in quel momento l'attenzione degli investigatori si concentrò su Salvatore Vinci, l'ultimo non ancora inquisito del gruppo del '68. Questo non impedì che all'inizio del settembre 1985 avvenisse un nuovo duplice omicidio del "mostro di Firenze", l'ultimo.
E' la notte di domenica 8 settembre del 1985, la luna è all'ultimo quarto, sono quasi le 24 nella piazzola degli Scopeti, sulla via degli Scopeti a San Casciano Val di Pesa, Jean Michel Kraveichvilj, musicista di 25 anni, e Nadine Mauriot, commerciante di 36, stanno dormendo all'interno di una tenda. Sono due turisti francesi e si sono fermati lì piazzando la tenda vicino alla loro automobile, una Golf bianca. L'assassino taglia la tenda dalla parte opposta all'entrata, e comincia a sparare. Jean Michel scappa, e viene finito a coltellate. Il suo corpo è stato ritrovato a più di dieci metri dalla tenda, coperto da rami e barattoli. Sulla donna l'assassino pratica le escissioni, poi rimette il cadavere nella tenda.
La particolarità di questo omicidio è che l'assassino nasconde i corpi delle vittime: getta Jean Michel in un dirupo e lo copre con rami e vecchi barattoli di vernice, chiude Nadine dentro alla tenda dopo averle praticato le escissioni. Perché si comporta così, perdendo più tempo e rischiando di farsi vedere da qualcuno? Probabilmente questo delitto - l'ultimo - era stato concepito nella sua mente come un'orrenda beffa agli inquirenti. Dopo aver commesso i delitti, l'assassino sale in macchina, percorre sessanta chilometri in piena notte, arriva a San Piero a Sieve e imbuca una lettera in una cassetta della posta. Sulla busta, composto con letterine ritagliate dal settimanale "Gente" e poi incollate, c'è il nome del destinatario: "dott. Della Monica Silvia, Procura della repubblica di Firenze". Dentro alla busta bianca si trova un piccolo lembo del seno di Nadine.
Se tutto fosse andato secondo i piani dell'assassino, gli inquirenti avrebbero avuto in mano la prova tangibile che da qualche parte intorno a Firenze, nascosto in un bosco, si trovava un cadavere. Ma dove? Avrebbero dunque dovuto cercare la vittima - o le vittime - prima dell'assassino. Ma le cose vanno diversamente: mentre la lettera è ancora in viaggio, un uomo scopre il cadavere di Jean Michel. Nel frattempo, tra l'altro, non è più la dottoressa Della Monica ad occuparsi del caso. Le indagini sono ora coordinate da Pier Luigi Vigna e da Paolo Canessa.
La busta è stata chiusa con la colla - e non con la saliva -; anche il francobollo è stato incollato: in entrambi i casi, non si trattava della stessa colla utilizzata per attaccare le lettere che componevano l'indirizzo del destinatario. La psicosi sale alle stelle, il ministro degli Interni fissa una taglia di mezzo miliardo sul "mostro di Firenze", la più alta in Italia, viene inoltre attivato un numero verde per tutte le segnalazioni, con la garanzia dell'anonimato. Il procuratore Pier Luigi Vigna si convince che la pista sarda è sbagliata, e deve essere abbandonata. Il 13 dicembre 1989 il giudice Rotella proscioglie tutti gli imputati ritenuti coinvolti nell'omicidio del 1968, e in quelli successivi: tutti gli indizi raccolti non hanno portato a prove concrete.
Per il giudice Rotella la strada da percorrere per scoprire l'identità del mostro doveva comunque passare per l'omicidio del 1968. Nell'istruttoria di quel delitto, una pagina era stata tralasciata, quella che Rotella titola: "Salvatore Vinci". In quella pagina Stefano Mele, ritrattando le accuse contro Francesco Vinci, aveva detto: "Anche Salvatore era un poco di buono. In Sardegna la moglie gli morì con il gas, ma anche lì il bambino fu salvato. Lui aveva la macchina a quattro ruote". Il particolare della macchina non è da poco. Non si era mai capito infatti come Stefano e gli altri potessero essere arrivati da Signa sul luogo del delitto e poi ripartire, perché nessuno aveva un'auto. Salvatore Vinci era l'unico ad averne una. Rotella suppone che Stefano abbia indirizzato le accuse contro Francesco Vinci per allontanare i sospetti da Salvatore che pure in un primo momento aveva accusato. Si torna a rivedere il ruolo di Salvatore Vinci nel delitto del '68.
Si torna a rivedere il ruolo di Salvatore Vinci nel delitto del '68. Fu Salvatore a cominciare a dirigere i sospetti sul fratello Francesco. Sta di fatto che Stefano Mele proprio dopo le insinuazioni che Salvatore aveva suggerito agli inquirenti, ritrattò le accuse contro Salvatore e piangendo gli chiese perdono. Da quel momento anche lui cominciò ad accusare Francesco. Perché Salvatore aveva tanto ascendente su Stefano? Correva voce, e la stessa Barbara se ne vantava, che Natalino non era figlio di Stefano, ma di Salvatore. Ma questo da solo non era un motivo sufficiente. Mele cercava di nascondere il vero motivo: "Se questo esisteva - scrisse il giudice Rotella - doveva essere assai più forte dell'odio, della paura e del sacrificio degli affetti familiari mostrati da Stefano". Il motivo delle bugie di Stefano Mele fu scoperto quando si fece luce sulla sconvolgente personalità di Salvatore Vinci: era la vergogna.
Con difficoltà, ma solo nel 1985, Stefano Mele confessa a Rotella di avere avuto insieme a sua moglie Barbara rapporti etero, ma anche omosessuali con Salvatore Vinci. Non solo: aggiunse di essere stato con lui, con la moglie e con il figlio Natalino alle Cascine dove Salvatore faceva congiungere sua moglie con altri uomini. Solo quando nel 1985 Stefano Mele ha il coraggio di confessare al giudice la verità dei rapporti sessuali suoi e della moglie e si libera di quel peso, ritorna 17 anni dopo a ripetere quella che, come uno sfogo, fu la prima versione dei fatti data la notte stessa del delitto: "Con me c'era Salvatore Vinci". Rotella va a rivedere l'alibi di Salvatore Vinci per la notte del delitto del 68.
Rotella va a rivedere l'alibi di Salvatore Vinci per la notte del delitto del 68. Salvatore aveva detto di avere passato il tempo a giocare a biliardo con due amici, un certo Nicola Antenucci e Silvano Vargiu, suo servo pastore, nonché suo amante. Antenucci già allora aveva detto di essersi sbagliato di giorno e fu scartato come teste. Restava Silvano Vargiu, il quale alla fine ammise che aveva detto solo quello che Salvatore gli aveva chiesto di dire. Ma c'è di più: quando Stefano Mele, due giorni dopo il delitto del '68, fu condotto sui luoghi per la ricostruzione dei fatti, arrivato davanti alla casa alla cui porta Natalino aveva suonato, apparentemente si sbagliò e indicò la casa accanto. Allora gli investigatori pensarono a un'imprecisione di Stefano. Invece la casa indicata era proprio quella di Silvano Vargiu, dell'uomo, insomma, che aveva fornito il falso alibi a Salvatore Vinci. Era Vargiu l'ombra, lo sconosciuto, di cui aveva parlato Natalino?
E un altro indizio cominciò a pesare su Salvatore: poco prima che lasciasse il suo paese di Villacidro in Sardegna, qualcuno aveva rubato a un suo anziano parente una Beretta calibro 22 comprata in Olanda. L'ipotesi di Rotella era che tra i Mele e Salvatore Vinci, che doveva loro molti soldi, fosse nato un accordo: Salvatore li avrebbe liberati definitivamente di Barbara e loro avrebbero azzerato il suo debito. Salvatore avrebbe preteso la presenza di Stefano per farlo poi passare come unico colpevole. I Mele avrebbero mandato due loro rappresentanti, Giovanni e Piero Mucciarini, a controllare che Salvatore non rubasse il mezzo milione che pochi giorni prima Barbara aveva preso e che speravano di recuperare quella notte stessa nella Giuletta di Antonio Lo Bianco.
Nel giugno del 1985 Stefano Mele dichiara a Rotella che era stato Salvatore Vinci a prospettare l'idea di uccidere Barbara. La donna, nauseata dai loro rapporti omosessuali, non si concedeva più ai due uomini. Salvatore non la sentiva più sua. Mele racconta che Salvatore aveva organizzato tutto; aveva anche deciso che Stefano doveva prendere l'arma per ultimo, in modo da fargli restare i residui della polvere da sparo. Dice che quella notte per primo ha sparato Salvatore, poi Giovanni Mele e alla fine lui, Stefano, che però aveva mirato in alto per non colpire il bambino. La pistola, dice Stefano, apparteneva a Salvatore Vinci. Salvatore Vinci viene arrestato per la vicenda della prima moglie, Barbarina Steri, morta asfissiata con il gas nel 1961 in Sardegna. Rotella era convinto che la giovane donna non si fosse suicidata, ma che fosse stata assassinata dal marito.
Nell'aprile del 1988, tre anni dopo, il processo per la morte di Barbarina si apre nell'aula della corte di assise di Cagliari, competente per territorio. E' a tutti evidente che il fine reale dell'accusa non era tanto quello di far condannare Salvatore Vinci per la morte della moglie avvenuta 28 anni prima, quanto quello di dimostrare, attraverso una condanna, che l'uomo era in grado di uccidere e che, quindi, poteva essere teoricamente anche il "mostro di Firenze". Fu chiamato a testimoniare anche il figlio Antonio, ormai adulto, che rifiutò di rispondere. Per tutta la durata dell'udienza figlio e padre si fissarono con odio, ma nessuno dei due disse niente. Tanto odio era probabilmente causato dal fatto che Salvatore non considerava Antonio suo figlio, ma lo credeva il frutto del rapporto tra Barbarina e il suo amante. Il ritratto di Vinci era impressionante, ma era il ritratto del "mostro di Firenze"? La ricostruzione del presunto omicidio della moglie Barbarina, a quasi 30 anni di distanza, risultò molto problematica. Vinci fu rilasciato. Da Cagliari andò per qualche giorno a Villacidro.
Poi fece perdere le proprie tracce. Secondo alcuni parenti era andato prima in Venezuela, poi in Spagna, precisamente in Andalusia. Nel 1995 ritornò per qualche mese a Villacidro, accompagnato da una donna spagnola. Poi se ne persero le tracce. Qualche tempo dopo giunse la voce - diffusa dai familiari - che lì era morto, ma la notizia non poté mai trovare una conferma. Durante la trasmissione ha telefonato Davide Cannella, un investigatore privato di Lucca. Secondo informazioni da lui raccolte - "ancora tutte da verificare" - Salvatore Vinci potrebbe essere vivo e vegeto: lo scorso anno l'uomo avrebbe telefonato diverse volte a Villacidro, in Sardegna.
L'enigma della pistola rimane irrisolto. Il 24 agosto del 1968 Stefano Mele aveva confessato di aver gettato l'arma del delitto in un fosso. Ma la pistola, nonostante le minuziose ricerche, non era mai stata trovata. Mele dunque aveva ritrattato, dicendo di aver riconsegnato la Beretta al suo legittimo proprietario, Salvatore Vinci, che - interrogato - aveva detto di non saperne niente. Della Beretta si erano perse le tracce fino a quando nel 1974 era tornata a sparare. Tutte le perizie avevano stabilito che le pallottole usate dall'assassino - perlomeno le prime cinquanta - provenivano tutte dalla stessa scatola. E' questo particolare a rendere improbabile che durante la notte del 21 agosto tra le campagne di Catelletti a Signa sia avvenuto il passaggio dell'arma e dei proiettili. Secondo i Carabinieri era impossibile che l'assassino si fosse portato dietro una scatola con cinquanta colpi: troppi. Ma allora chi aveva preso la pistola?
Era possibile credere che un estraneo alla cerchia delle persone coinvolte nel primo omicidio avesse trovato "per caso" la pistola e la scatola di munizioni, e avesse deciso - sei anni dopo - di commettere delitti simili al primo, con l'aggiunta di agghiaccianti rituali? Forse la pistola era stata rubata? Fu accertato che in Toscana erano state legalmente vendute quattordicimila pistole simili a quella. La ricerca era stata resa ancora più difficile dall'alluvione del 1966, che aveva distrutto molti registri delle armerie e dei commissariati. Quando nel 1982 era stato arrestato Francesco Vinci, l'indagine si era allargata in Sardegna, per cercare tracce della pistola. Venne accertato che a Villacidro - paese di origine del Vinci -, prima del 1968 erano state vendute 11 Berette calibro 22. Dieci proprietari risposero all'appello, ne mancava uno. Si trattava di Franco Aresti, lontano parente di Francesco Vinci, morto nel 1963 dopo essere stato in Olanda per qualche tempo. Ma tra le sue cose la pistola non fu trovata, né a Villacidro né in Olanda.
Esiste un documento ufficiale, ignorato fino ad oggi dagli stessi inquirenti, che potrebbe rappresentare un'importante traccia per risalire a chi prese la pistola. Nel documento - rimasto dimenticato per anni in un archivio - c'è scritto il nome di chi potrebbe aver rubato l'arma. Si tratta di una denuncia presentata da Salvatore Vinci. L'uomo nel 1974 abitava a Firenze, in via Cironi. Nel mese di aprile qualcuno forzò la porta ed entrò a casa sua. Salvatore presentò denuncia ed aggiunse che non sapeva o non poteva dire se gli era stato preso qualcosa - ed eventualmente che cosa gli era stato preso. Ma nella denuncia Salvatore fa nome e cognome di quella persona che si è introdotta in casa. Ed è sorprendente che questa persona lui la conosceva benissimo. Questo ragazzo - che ha successivamente confermato l'episodio durante un'intervista rilasciata ad un giornalista - lascia Firenze nel 1985. Quando nel 1980 torna in città Salvatore Vinci - che lo viene a sapere - si comporta in modo strano: chiede di essere volontariamente ricoverato nel reparto psichiatrico di Santa Maria Nuova. Ha forse paura?
Nel 1989 su richiesta del ministero degli Interni l'Fbi ha redatto un profilo psicologico dell'autore dei delitti. Ci sarebbero alcuni punti in comune tra l'identikit tracciato dagli esperti e il giovane che si era introdotto a casa del Vinci: il "mostro" è una persona sola che agisce senza aiuto di nessuno, è un attento pianificatore, vive in un quartiere della bassa borghesia, vive da solo - o in compagnia della madre, di una sorella o di una zia -, svolge un lavoro manuale, non è sposato perché non è in grado di riuscire a mantenere un rapporto stabile con una donna. Il motivo che lo spinge a commettere i fatti si troverebbe nel fatto che si sente frustrato perché inadeguato sessualmente. Non conosce le sue vittime, ma conosce bene i luoghi del delitto; non è mai stato arrestato per reati contro persone. La sua "firma" si troverebbe in un gesto che fa in ogni delitto, forse senza rendersene conto, un gesto altrimenti inspiegabile: separa la donna dall'uomo, come se volesse impedire una congiunzione carnale. Gli esperti dell'Fbi ipotizzano che dietro a questo gesto ci sia l'idea di riprendersi con la forza una donna che con la forza gli era stata strappata.
Il ragazzo denunciato da Vinci ha perso la madre in modo drammatico. Probabilmente si tratta solo di coincidenze, sulle quali però, alla luce del documento finora dimenticato, potrebbe essere interessante indagare.
Il 31 maggio 1999 la Corte d'Assise d'Appello ha condannato all'ergastolo Mario Vanni e a 26 anni di reclusione Giancarlo Lotti. Pietro Pacciani non era tra i condannati perché era morto il 22 febbraio 1998 nella sua casa di Mercatale, prima della fine del processo bis. Ai cosiddetti "compagni di merende" furono attribuiti 4 dei 7 duplici delitti, quelli avvenuti dal 1982 al 1985. La condanna è stata poi resa definitiva il 26 settembre 2000 dalla Cassazione di Roma. Durante il processo ai "compagni di merende" Giancarlo Lotti - recentemente scomparso -, dopo aver a lungo negato, aveva raccontato di aver partecipato ai delitti. Delitti compiuti per denaro: un misterioso mandante avrebbe "ordinato" i feticci in cambio di soldi. Durante la maxiperquisizione a casa di Pietro Pacciani venne trovato - tra l'altro - nascosto in una nicchia scavata in un muro, un rotolo di buoni postali per il valore di novantacinque milioni di lire.
Dal carcere di Sollicciano, dove era recluso, Pietro Pacciani aveva scritto una lettera a Vanni. Lui dopo averla letta aveva chiesto all'amico Lorenzo Nesi di essere accompagnato d'urgenza a casa di Pacciani perché doveva parlare con sua moglie. Arrivati davanti alla casa, Vanni non aveva voluto che Nesi entrasse. A proposito del contenuto della lettera - che venne poi distrutta - Nesi riferì ciò che gli aveva detto Vanni: trattava di "cose grosse, fatti di sangue...". Lorenzo Nesi compare anche come testimone del delitto dei due giovani francesi, l'ultimo, avvenuto la notte della domenica 8 settembre 1985. Nesi quella notte vide passare ad un incrocio poco distante dal luogo del delitto Pacciani a bordo della sua auto. A mezzanotte, lungo la superstrada per Firenze un'altra persona lo aveva riconosciuto mentre guidava in stato di trance, sudato, con la luce dell'abitacolo accesa. Da quella superstrada si può raggiungere agevolmente San Piero a Sieve, il luogo dove è stata imbucata la lettera indirizzata al sostituto procuratore che allora si occupava delle indagini sul "mostro", Silvia della Monica. La busta conteneva un lembo del seno di Nadine Mauriot.
Pietro Pacciani, che si è sempre dichiarato innocente, si era difeso raccontando che quella sera si era recato con le sue figlie a cenare alla festa dell'Unità che si teneva a Cerbaia. Quando, alle nove meno un quarto, aveva deciso di andar via, la sua auto non era partita. Così aveva chiesto aiuto a Marcello Fantoni, un meccanico di Mercatale che però aveva smentito questa dichiarazione. Ripartita l'auto, Pacciani sarebbe ritornato a casa e si sarebbe messo a dormire. Il risultato dell'autopsia sui cadaveri dei due giovani francesi, rinvenuti il lunedì 9 settembre nella piazzola degli Scopeti, aveva collocato la loro morte durante la notte della domenica. Ma a dar credito a una diversa possibilità, ossia che il delitto fosse stato commesso la notte del sabato 7 settembre, c'era stata la testimonianza di una giovane donna che alle cinque del pomeriggio della domenica 8 settembre si era recata sul piazzale degli Scopeti con il fidanzato.
Dovevano festeggiare il suo compleanno, ed avevano portato una torta. Arrivati sul posto avevano visto la tenda e la macchina dei francesi, ma di loro due, già notati in una festa di paese qualche giorno prima, nessuna traccia. Intorno alla tenda la ragazza vide molto disordine. Ben presto, dopo soli venti minuti, i ragazzi avevano deciso di andar via, a causa del gran puzzo, come di un animale morto, e della gran quantità di mosche. "Diversi agenti di polizia e carabinieri - racconta il giornalista Mario Spezi, che aveva seguito la vicenda - dicevano di aver notato sui cadaveri, specialmente in quello della donna, larve di mosca decisamente grosse. Secondo la loro esperienza, giudicarono che avrebbero dovuto essere lì da più tempo di quanto si diceva". Il procuratore Piero Tony, letto l'articolo di Spezi pubblicato sulla "Nazione", fece fare dei rapidi accertamenti al museo naturale di Firenze: "Mi diedero notizie generiche che mi rassicurarono".
Oggi è diventato routine per i medici legali identificare la specie, il tipo e il grado di sviluppo delle larve presenti sui corpi per determinare il momento della morte. "Chi l'ha visto?" ha sottoposto i risultati dell'autopsia realizzata nel 1985 sui cadaveri dei giovani francesi dal professor Maurri - e la relativa documentazione fotografica - al professor Francesco Introna, dell'istituto di medicina legale di Bari, che ha condotto proprio su questo tema studi all'avanguardia. Secondo il professore, le larve presenti sui corpi dei francesi "avevano già passato la prima fase di sviluppo, erano alla seconda. Pertanto - sostiene il professore - non potevano essere state deposte sulla salma da meno di trentasei ore. Di conseguenza l'ipotesi che l'omicidio possa essere stato commesso la notte dell'8 settembre e che la deposizione sia avvenuta all'alba del 9 e le foto scattate a dodici ore di distanza - erano le cinque di pomeriggio -, non trova nessun supporto dal dato entomologico. Il che fa slittare l'ora della morte al giorno precedente, come minimo il giorno 8 o la notte tra il 7 e l'8". Ricordiamo che per la notte tra il 7 e l'8 settembre Pacciani non aveva nessun alibi confermato.
Durante l'interrogatorio a cui era stato sottoposto il 19 settembre 1985, aveva dichiarato di aver trascorso tutta la giornata del sabato 7 nella casa di Piazza del Popolo, quella intestata alle figlie, per dei lavori, e che poi, alle 19, era tornato presso la sua abitazione, dalla quale non sarebbe più uscito. La procura di Firenze, però, non ha dubbi sulla data della morte dei francesi, e contesta l'ipotesi avanzata dal professor Introna. Nel corso dei processi a Pacciani e ai suoi complici, replica la Procura, i periti medico-legali avevano chiarito che "i fenomeni cadaverici" avevano avuto nella donna "una evoluzione sicuramente più rapida" perché il corpo era rimasto chiuso in una tenda battuta dal sole, in un ambiente non ventilato e surriscaldato. Ma, al di là delle valutazioni medico-legali, la data del delitto sarebbe confermata soprattutto da una serie di testimonianze, rese da "numerose persone, che peraltro non si conoscevano l'un l'altra", e che avevano visto la coppia nella zona la mattina dell'8 settembre.
Il mistero del "mostro di Firenze", il killer maniacale (o i killer) delle coppiette, appare, a distanza di tanti anni, sempre più oscuro e contorto. Il settimanale "Panorama" ha annunciato clamorosi sviluppi su questa infernale catena di delitti, chiamando in causa il magistrato Pier Luigi Vigna. Un testimone lo accuserebbe di aver trattato una sorta di copertura con la "banda dei sardi", implicata nelle indagini sul "mostro" dal 1982. Un racconto credibile o l'ennesimo polverone? Secondo questo testimone segreto Giuseppe Barrui - oltre a essere implicato direttamente nei due duplici omicidi del 1981 - nel 1992 avrebbe messo il proiettile nell'orto di Pietro Pacciani per incastrarlo. Giuseppe Barrui è morto a Pisa tre anni fa, nel 1998. "Chi l'ha visto?" ha raccolto la testimonianza di Giovanni Calamosca, che vive in località Caburaccia, nell'Appennino Tosco Emiliano.
"Chi l'ha visto?" ha raccolto la testimonianza di Giovanni Calamosca, che vive in località Caburaccia, nell'Appennino Tosco Emiliano. Quest'uomo conosce bene la "banda dei sardi". Nel 1997 raccontò a Michele Giuttari, capo della squadra mobile fiorentina, che Francesco Vinci, trovato carbonizzato nel 1993 nella sua auto insieme al pastore Angelo Vargiu, gli aveva confessato di aver ucciso a Signa nel 1968 Barbara Locci e Angelo Lo Bianco con la Beretta calibro 22 che sarebbe poi passata di mano. Con questa pistola sono stati compiuti i sette duplici omicidi del "mostro". Calamosca, finito in carcere negli anni Ottanta per sequestro di persona, fu anche sospettato di essere proprio lui il "mostro di Firenze". Di seguito, il testo integrale dell'intervista. Dov'è nato? A Imola. Da quanto vive qui? Dal 1952-1954. Che lavoro ha fatto? Il pastore. Quanti anni ha? Settantaquattro.
Ha conosciuto Giuseppe Barrui? Ho conosciuto Giuseppe Barrui perché trattai con lui cento pecore; stava qui sopra a Bologna. Poi l'ho conosciuto perché sono andato a comprare un montone da lui, che abitava a Comacchio. Salvatore Vinci, fratello di Francesco, è scomparso dopo essere stato imputato in due processi: per la vicenda del mostro di Firenze e per la strana morte di sua moglie Barbarina Steri. Di lui non si hanno più notizie dal 1986. Conosceva i Vinci? Sì, tutti e due. Conoscevo meglio Francesco, abbiamo fatto diciotto mesi a San Giovanni in Monti, innocenti. Lui scriveva a venti trenta donne, a tutti quegli avvisi dei giornalini; aveva dei pacchi di lettere così. Io mi divertivo a leggere le lettere per non pensare alla tragedia che uno ha quando fa della galera innocente. La sua amante era Barbara Locci. Il marito era contento che Vinci andasse a letto con lei, gli portava il caffè a letto. Questa è la sacrosanta verità che mi ha raccontato lui, non sono bugie. Solo che dopo Barbara Locci ha trovato questo toscano, e lì sono nate le gelosie ed è successo quello che è successo.
Per il delitto di Lo Bianco e Locci è finito in carcere Stefano Mele, il marito di Barbara. A lei, però, Francesco Vinci racconta che quella notte dell'agosto 1968 a uccidere i due amanti era stato lui. Sì, insieme a Mele. Vengono uccisi con una pistola, la calibro 22, che sarà quella del mostro di Firenze. La pistola era di proprietà di Francesco Vinci, le ha raccontato che fine ha fatto? No, non me l'ha mai raccontato, io non ci ho mai capito niente. Però, voi vi dovete fare indietro nel tempo. Francesco Vinci aveva un'amante - non mi ricordo più il nome - ed è stata ammazzata, bruciata. Milva Malatesta e suo figlio Mirko di tre anni sono stati uccisi e poi bruciati il 19 agosto 1993.
Dopo, hanno ammazzato anche Francesco Vinci, nel 1993, è stato bruciato. Non si brucia uno per un furto di pecora come poteva fare lui, o per un furto di due maiali. Perché ricorda questo particolare per spiegare il delitto del 1968 e quella pistola? Perché ho sempre avuto questo presupposto, che qualcuno, il vero mostro, avesse paura o fosse ricattato e abbia avuto l'interesse di togliersi sia il Vinci sia l'amante, che sapesse qualcosa anche lei. Io guardi a tutta la storia di Pacciani non ci credo. Pacciani non era il mostro di Firenze? No, nella maniera più assoluta, come neanche quello che è all'ergastolo. Intende i "compagni" di Pacciani? Sì, sì... Mario Sale e Giovanni Farina sono tra i più pericolosi esponenti dell'Anonima Sarda. Attualmente Farina è in carcere per il rapimento Soffiantini.
A casa sua sono passati Mario Sale e Giovanni Farina? Sì, è la verità. Ma ci ho rimesso sempre di tasca. Che faceva lei quando venivano sequestrate queste persone? Io mi mettevo le mani nei capelli, perché sapevo che prima o dopo mi capitavano dei casini. Vigna cosa le chiese durante il periodo in cui accadevano questi rapimenti? In un primo momento, prima, ha creduto che io fossi il mostro di Firenze. Io sulla "Nazione" sono stato cinque o sei mattine, così piccolo, in fotografie in prima pagina, così piccole; e lui là grande, con la mano così, con la toga, così grande. Quando qui in questa stanza c'erano Mario Sale e Farina di cosa si parlava? Cosa le dicevano? Niente, si parlava di pecore, si parlava perché io poi ero diventato socio con Farina, avevamo un branco di pecore assieme, dei cavalli assieme.
Avevate i vostri affari... Puliti. Degli affari sporchi lei non sapeva niente, però Vigna da lei voleva sapere questi affari sporchi? Appunto. Vigna voleva che lei parlasse? E io l'ho anche aiutato Vigna, se vuol dire la verità. Forse, se non Vigna, ho aiutato molto di più la Criminalpol di Firenze, gli ho dato delle mani forti - lasci perdere, non posso dire niente. Mi fa capire queste "mani forti"... Non posso dire niente. Non mi chieda altro. Ma per il "mostro" o per i rapimenti? Per i rapimenti. Riguarda, forse, il sequestro Berardinelli? No, prima, prima ... Il sequestro Fantazzini? Non mi chieda niente. In un articolo de "La Nazione" c'è scritto "Vigna ha coperto i sardi, sulla vicenda del mostro di Firenze spunta un altro testimone". Per me è tutta una montatura. Vigna non ha coperto nessuno, glielo dico pure che io mi sono trovato interrogato più di una volta, più di due.
Da Vigna? Da Vigna. Vigna non ha coperto nessuno, Vigna non ha mai avuto rispetto per nessuno. Chi può aver parlato? Non credo io che sia un sardo, perché i sardi hanno solo interessi a tenere coperta la faccenda. Quando fu arrestato Vinci per il mostro, perché sospettavano lui, è stato arrestato in 'sta casa, qui, il 15 agosto che c'avevamo una cena. Com'è che subito dopo sono successi altri due delitti in poco tempo? Lo facevano per tirar fuori Vinci. E allora chi è che ha ammazzato Vinci? Chi è stato che ha ammazzato l'amante? Com'è che è sparito il fratello di Vinci?
Il Tribunale di Firenze ha condannato il pm di Perugia, Giuliano Mignini e il poliziotto Michele Giuttari, rispettivamente a un anno e quattro mesi e un anno e sei mesi per abuso d'ufficio in concorso. La vicenda è collegata a uno dei filoni d'indagine sui delitti del mostro di Firenze. Giuttari è stato capo del Gides (Gruppo investigativo delitti seriali) che ha condotto le indagini sugli omicidi delle coppiette, in collaborazione con le procure di Perugia e Firenze. Secondo l'accusa, il pm e il poliziotto avrebbero svolto indagini su giornalisti e funzionari delle forze dell'ordine per condizionare la loro attività nell'inchiesta perugina sulla morte del medico umbro Francesco Narducci, trovato morto annegato nel 1985 nelle acque del Lago Trasimeno. Mignini è il titolare, tra le altre, dell'inchiesta sull'omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher.
La Corte d'Appello di Firenze ha dichiarato l'incompetenza territoriale fiorentina per quanto riguarda il procedimento a carico del pm di Perugia Giuliano Mignini e il funzionario di polizia Michele Giuttari. La Corte d'Appello ha quindi annullato la sentenza di primo grado con cui nel gennaio del 2010 Mignini e Giuttari vennero condannati rispettivamente ad un anno e 4 mesi e a 6 mesi per abuso d'ufficio in concorso. La vicenda è collegata alle indagini perugine legate al mostro di Firenze. La Corte d'Appello ha quindi disposto la trasmissione degli atti alla Procura di Torino, competente perché fra le persone offese nel procedimento fiorentino c'é un magistrato di Genova. Mignini è stato il magistrato titolare a Perugia dell'inchiesta sulla morte del medico Francesco Narducci, che la Procura umbra riteneva collegata alle vicende del mostro di Firenze. Giuttari era il poliziotto che si occupava delle indagini.
La procura ha chiesto l'archiviazione per gli ultimi due indagati per i delitti avvenuti fra il 1968 e il 1985. Escono di scena Giampiero Vigilanti e il medico Francesco Caccamo. Il procuratore capo di Pistoia Paolo Canessa, che ha sempre indagato sui delitti del cosiddetto 'Mostro', aveva iscritto nel registro degli indagati l'ex legionario di 87 anni e il medico di 88 anni. "Non ho paura di niente, non ho fatto nulla, Ho sempre avuto quattro pistole. Pacciani lo conoscevano tutti", aveva dichiarato Vigilanti intervistato dalla TGR Rai Toscana.
Accertamenti disposti dalla procura su una Beretta calibro 22, modello come quello dell'arma, mai ritrovata, con la quale sono stati commessi gli omicidi tra il 1968 e il 1985. Lo riferisce “La Nazione”. La canna è stata rinvenuta in un'abitazione in città, la pistola in un casolare a Manciano (Grosseto).