Data pubblicazione:06/05/2009
E’ il 5 gennaio del 1987. Fa freddo a Varese. Lidia, 21 anni, è rimasta a casa a studiare. Prepara un esame per l’università. Nella villetta con lei c’è solo la nonna, i genitori sono in montagna. Verso le 16 la ragazza riceve una telefonata, poi si reca alla vicina stazione di Casbeno per controllare gli orari dei treni. Circa un’ora più tardi a sorpresa, i genitori anticipano il rientro dalla montagna, come colti da un presentimento. La ragazza è contenta di vederli, e chiede loro in prestito la Panda. Vuole andare a trovare un’amica in ospedale. Il padre le dà 10.000 lire per la benzina, perché l’auto è in riserva. Lidia guida per circa 20 minuti fino all’ospedale di Cittiglio, dove incontra l’amica e rimane con lei fino alle 8,15, ora in cui la saluta, dicendole che a casa l’aspettano per cena. Nessuno la vede uscire dall’ospedale, nessuno la vede salire sulla macchina e partire. La ragazza da questo parcheggio semplicemente scompare con la Fiat Panda.
Partono le ricerche. Gli amici di "Comunione e Liberazione", gruppo del quale Lidia fa parte, setacciano i dintorni.
Il 7 gennaio, tre di loro, in una traversa sterrata di via Filzi, in località Sass Pinì, avvistano la Panda. L’auto ha il quadro ancora acceso, il serbatoio segna la riserva. Lo sportello del guidatore è aperto, e a terra c’è il corpo senza vita di Lidia. È coperta da cartoni, la faccia in giù, i pugni chiusi. Ma come è finita Lidia in un luogo come quello, frequentato da tossicomani, coppiette e prostitute? Per il medico legale la ragazza e’ stata colpita a morte da 29 coltellate E, prima di morire, ha avuto un rapporto sessuale. Probabilmente il primo e forse con violenza.
Lidia era vestita quando l’hanno trovata, ma aveva i collant infilati al rovescio e i pantaloni negli stivali, come lei non li portava. Nella sua borsa viene trovato un foglio a quadretti. È una lettera scritta da Lidia e sembra una lettera d’amore: “Ti volevo dire amore mio, che fuori oggi c’è una pioggierellina fredda… ma dimmi perché sorridi, perché il tuo sguardo è cosi dolce, luminoso e reale, perché sollevi gli occhi al cielo e perché io non posso che arrendermi alla realtà. Non posso che riconoscere che tu ci sei… non so se ci sarà un futuro insieme per noi”.La lettera si conclude con un mistico “amen”.
Le indagini vengono svolte nel più stretto riserbo, si scava nella vita della vittima, 21 anni, iscritta al secondo anno di giurisprudenza all’università statale di Milano. Solare, allegra, sportiva, ama la musica e le buone letture. Scrive molto: pensieri, ma anche poesie. Profondamente cristiana, cresciuta tra gli scout, attivista di "Comunione e Liberazione", temperamento da leader. Non emerge alcun mistero, eppure si crede poco all’ipotesi del balordo sempre più a quella dell’assassino appartenente alla sua cerchia. Si occupa delle indagini il sostituto procuratore Agostino Abate. Tutto questo avveniva nel 1987. Le imminenti svolte più volte annunciate anche recentemente, non ci sono mai state. Ancora oggi, a chi si rivolge al magistrato Abate, che da sempre indaga su questo omicidio, lui risponde “di dover difendere una riservatezza che potrebbe rivelarsi decisiva per il prosieguo”.
Il 10 gennaio del 1987 Varese è in lutto. Quasi 5000 persone partecipano attonite ai funerali di Lidia Macchi, ci sono i suoi amici ciellini, le autorità civili e religiose. In quelle stesse ore una lettera anonima indirizzata ai genitori viene impostata nei pressi della casa di Lidia. La lettera ha un titolo, “in morte di un’amica”, ed è un delirio mistico ispirato a brani del Vecchio Testamento: “la morte urla contro il suo destino. Grida di orrore per essere morte: orrenda cesura strazio di carni… Perché io. Perché tu. Perché in questa notte di gelo, che le stelle son così belle, il corpo offeso, velo di tempio strappato, giace”. La lettera si conclude con un cerchio, un simbolo sacro, forse il disegno di un’ostia consacrata. Gli inquirenti si concentrano su preti e uomini appartenenti a "Comunione e Liberazione". Nel giugno di quell’anno la comunità cattolica di Varese vive con choc il fermo di 4 sacerdoti e un professore di filosofia dirigente di CL. Uno di loro, don Antonio, viene portato in procura e trattenuto per un lunghissimo interrogatorio fino alle 18:15 del giorno dopo. Don Antonio, ha 32 anni, è responsabile dell’oratorio di San Vittore, e conosce bene Lidia, ne ha anche benedetto il corpo sul luogo del ritrovamento. Un noto giurista milanese molto vicino alla curia denuncia “il grave e sconcertante episodio” e chiede che l’inchiesta sia tolta al magistrato inquirente. Alla fine il procuratore di Brescia conclude che “gli interrogatori erano stati regolari”, e Abate continua ad indagare. Le indagini ripartono dalla stradina di Sass Pinì. Secondo gli inquirenti Lidia non è morta qui ma vi è stata portata dopo. Inoltre da qui c’è una facile via di fuga. Attraverso un viottolo nel bosco con pochi minuti di cammino si può raggiungere la stazione delle Ferrovie Nord.
Ferrovie, ospedale di Cittiglio, luogo del ritrovamento, tutto si trova a una distanza in linea d'aria di circa 2-3 km.
D’altra parte, quando fu ritrovata la Fiat Panda era ancora in riserva e le 10.000 lire per la benzina erano ancora nelle tasche di Lidia. Tracciando un raggio di pochi km, intorno al luogo del ritrovamento, si scoprì che nell’area c’era il luogo dove don Antonio portava sempre in gita gli scout. A novembre nel caso Macchi irruppe la televisione.
Enzo Tortora, appena uscito dal suo caso giudiziario, nel nuovo programma “Giallo”, sfidò la magistratura parlando per la prima volta in Italia della prova del DNA. In Inghilterra un intero paese si era sottoposto al test che aveva consentito di individuare l’assassino di due ragazze. Tortora chiese in diretta e in collegamento con il sindaco di Varese, Maurizio Sabatini, se gli abitanti di questa città sarebbero stati disposti a sottoporsi alla prova del DNA. Da questo sondaggio senza precedenti, risultò che 75 varesini su 100 accettavano la sfida. Cinque mesi dopo, in procura, vennero convocate 4 persone per effettuare un prelievo di sangue. I campioni di sangue vennero inviati in Inghilterra. L’attesa fu lunga e quando, nel giugno dell’88, la risposta arrivò fu deludente perché la quantità troppo esigua di liquido seminale prelevato dal corpo di Lidia non era sufficiente per definire una identità genetica.
Il test non confermava ma neache escludeva un eventuale colpevole tra i 4 uomini esaminati. Don Antonio, travolto dallo scandalo, dovette cambiare città e ancora oggi si rifiuta fermamente di parlare di questa vicenda. Eppure, a Varese tra i suoi amici, nell’ambiente di "Comunione e Liberazione", c’è sempre stata e ancora c’è, una chiusura su quello che è successo a Lidia. Ancora un anno fa la procura di Varese, ha cercato di dare nuovo impulso alle indagini. Si è detto che sarebbe stato ritentato il test del DNA sui reperti che risalivano ormai a 21 anni prima ma sembra che a tutt’oggi non si sia dato seguito a queste voci.
Sono passati 22 anni e a Varese tutti ancora ricordano Lidia Macchi, di come morì e di come, chi l’uccise, sia rimasto nell’ombra, nonostante in procura l’inchiesta per omicidio contro ignoti, sia tutt’ora aperta. Nel frattempo la famiglia e i suoi amici hanno dato vita nel nome di Lidia, e per onorarne la memoria, a varie iniziative benefiche.
Secondo quanto riportano alcuni quotidiani, la procura generale di Milano, ha avocato l’inchiesta della procura di Varese affidando nuovi accertamenti al sostituto procuratore generale Carmen Manfredda. La decisione risponde anche una lettera - appello inviata dai parenti di Lidia Macchi alla magistratura milanese.
Il sostituto procuratore generale di Milano, Carmen Manfredda ha depositato nei giorni scorsi gli atti di chiusura indagini in vista della richiesta di rinvio a giudizio per Giuseppe Piccolomo. Le accuse nei suoi confronti sono di omicidio volontario con l'aggravante della premeditazione, dei motivi abbietti e futili, della crudeltà e per aver agito con lo scopo di occultare una violenza sessuale. Giuseppe Piccolomo sta già scontando l'ergastolo per il cosiddetto “delitto delle mani mozzate” ovvero l’omicidio a Cocquio (Varese) della pensionata Carla Molinari, il cui cadavere venne trovato orribilmente seviziato e mutilato nel novembre del 2009. A dare una svolta alle nuove indagini sono state le stesse figlie dell’uomo, riferendo ai magistrati che si sarebbe vantato spesso di aver ucciso lui la studentessa. Sia nell’omicidio di Lidia Macchi che in quello di Carla Molinari vennero inferti fendenti alla gola e numerose coltellate, rispettivamente 29 e 23. Inoltre, secondo gli inquirenti c’è una forte somiglianza tra una fotografia di Piccolomo dell’epoca e l'identikit redatto sulla base delle testimonianze di quattro ragazze che avevano subito tentativi di aggressione in quel periodo nel parcheggio dell'ospedale di Cittiglio (Varese). Il cadavere di Lidia Macchi venne trovato coperto da un cartone da imballaggio con su scritto “elemento anta olmo, maneggiare con cura”. Dagli accertamenti del sostituto pg è risultato che quegli imballaggi venivano usati negli anni '80 da un'azienda di Laveno (Varese) e che il legno di olmo era utilizzato prevalentemente per mobili molto piccoli, adatti soprattutto per le camerette dei bambini. Le due figlie di Piccolomo hanno testimoniato che nel 1986 il padre aveva comprato mobili di quel tipo per la camera del loro fratellino. Da un atto notarile, infine, risulta che il primo gennaio del 1986 Piccolomo con la famiglia si era trasferito in una casa distante poche centinaia di metri da quella della famiglia Macchi.
Le figlie di Piccolomo sono convinte che non sia stato un incidente quello in cui la loro mamma, Marisa Maldera, morì a 49 anni il 20 febbraio 2003, bruciata viva nell’auto sulla quale il marito trasportava una tanica di benzina. Allora Piccolomo patteggiò una pena per omicidio colposo, ma la procura di Varese nel settembre del 2013 ha riaperto il caso per valutare se sono comunque possibili nuove indagini.
La procura di Milano ha disposto anche l'archiviazione della posizione del sacerdote don Antonio “per la insussistenza di qualsiasi indizio a suo Carico”, intendendo “rimuovere il permanere dell'ingiusto alone di sospetto e il danno all'immagine che da oltre 27 anni grava su questa persona”. Gli inquirenti hanno scoperto che il religioso, sospettato dalla procura di Varese, non è però mai stato iscritto nel registro degli indagati con l'accusa di omicidio, malgrado nei suoi confronti siano stati svolti anche atti di indagine. Quindi il sostituto pg Manfredda ha deciso di effettuare nei giorni scorsi l'iscrizione nel registro degli indagati di don Antonio al solo fine di procedere poi alla richiesta di archiviazione.
E' scomparsa dall'Ufficio Corpi di Reato del Tribunale di Varese la borsetta che Lidia Macchi aveva con sé il giorno della sua scomparsa e che fu trovata accanto al suo corpo.. In precedenza, nell'ottbre del 2000, il gip dello stesso tribunale aveva disposto la distruzione degli gli abiti che indossava e dei vetrini contenenti il liquido seminale dell'assassino. Lo ha denunciato con un comunicato il legale della famiglia Macchi, Daniele Pizzi, informato dal sostituto pg di Milano Carmen Manfredda che ha da poco chiuso le indagini a carico di Giuseppe Piccolomo. “Non solo per 28 anni la procura di Varese non ha saputo dare un nome all'assassino di Lidia, ma nemmeno è stata in grado di preservare i reperti che ora avrebbero potuto consentire la sua individuazione!”, ha dichiarato Pizzi.
Il procuratore generale di Milano, Carmen Manfredda, ha conferito l'incarico a tre consulenti per effettuare nuovi accertamenti su peli, capelli e altri reperti ritrovati 28 anni fa sul corpo e sull'auto di Lidia Macchi per compararli con il Dna di Giuseppe Piccolomo. Gli esami genetici sono affidati al professor Carlo Previderè, responsabile del laboratorio di genetica forense dell'Università di Pavia e consulente della procura di Bergamo per il caso Yara Gambirasio. Sarà coadiuvato dalla sua assistente, Pierangela Grignani, e dal biologo Roberto Giuffrida, specialista della polizia scientifica di Milano. E’ stato grazie all’intuizione di Previderè di utilizzare il Dna nucleare anziché quello mitocondriale che si è avuta la svolta nell’inchiesta per l’omicidio di Yara Gambirasio che ha portato all’arresto di Massimo Bossetti. Dopo questo cambio di strategia nelle analisi genetiche la procura di Bergamo ha potuto individuare rapidamente prima la madre del cosiddetto Ignoto 1 e poi identificare la coincidenza genetica di quest’ultimo con Bossetti.
Nei 60 giorni previsti dovranno esaminare peli e capelli trovati su un bavaglino, fazzoletti e un sacchetto che erano sulla Fiat Panda di Lidia Macchi, due siringhe, giornali, terriccio e riviste pornografiche raccolte sul luogo del delitto e alcune lettere anonime inviate alla famiglia della ragazza. Saranno esaminati di nuovo anche i reperti che si credevano perduti ma che invece erano conservati da anni all'Istituto di medicina legale di Pavia: ritagli degli abiti di Lidia Macchi sporchi di sangue e del sedile della sua auto. La consulenza era stata chiesta dal difensore di Piccolomo, l'avvocato Omar Pagnozzi.
Scagionano Giuseppe Piccolomo i nuovi accertamenti disposti dal sostituto pg Carmen Manfredda su peli, capelli, lettere anonime inviate alla famiglia della ragazza, ritagli degli abiti di Lidia Macchi sporchi di sangue e del sedile della sua auto. La consulenza effettuata dai biologi Carlo Previderé, Pierangela Grignani e Roberto Giuffrida ha escluso che il Dna ricavato sia compatibile con quello di Piccolomo. Peli e capelli sono tutti riferibili al nucleo familiare della studentessa, a parte uno riconducibile a ignoto. Attraverso il suo legale, avvocato Omar Pagnozzi, l’uomo ha chiesto di essere interrogato.
Il Pm di Varese Luca Petrucci aveva chiesto l'archiviazione dell’indagine su Giuseppe Piccolomo per la morte della moglie. Come già per le indagini sull’omicidio volontario di Lidia Macchi, la Procura generale di Milano ha avocato l’inchiesta, affidata anche questa al sostituto pg Carmen Manfredda. Il magistrato nel luglio 2013 aveva chiesto alla Procura di Varese di riaprire le indagini "per omicidio volontario" contro Giuseppe Piccolomo, sulla base delle "analogie evidenti" tra l'omicidio Molinari e la morte di Marisa Maldera. La donna rimase carbonizzata dentro l'auto guidata dal marito, che nel 2006 ha patteggiato la pena di un anno e quattro mesi solo per omicidio colposo. Verranno quindi esaminati gli atti in vista dell'udienza, davanti al gip di Varese, per discutere l' opposizione all'archiviazione dell'inchiesta in cui Piccolomo è indagato per omicidio volontario, presentata dal legale delle due figlie dell'uomo, l'avvocato Nicodemo Gentile. Se l'opposizione sarà accolta l'indagine non verrà archiviata e verrà portata avanti dalla Procura generale di Milano.
Milano, 15/1/2016 - Un uomo è stato arrestato questa mattina per l'omicidio di Lidia Macchi nel 1987. Si chiama Stefano Binda, 47 anni, ed è accusato di omicidio volontario aggravato. Dopo aver violentato la ragazza, Binda l’avrebbe uccisa “per motivi abietti e futili, consistenti nell'intento distruttivo della donna considerata causa di un rapporto sessuale vissuto come tradimento del proprio ossessivo e delirante credo religioso, tradimento da purificarsi con la morte; intento punitivo pertanto del tutto ingiustificabile e sproporzionato agli occhi della comunità”. Lo si legge nell’ordinanza di custodia cautelare in carcere del gip di Varese, Anna Giorgetti, emessa su richiesta del sostituto pg di Milano, Carmen Manfredda. Il 9 gennaio 1987, giorno dei funerali della ragazza, Binda avrebbe inviato la lettera anonima a casa della famiglia Macchi intitolata 'In morte di un'amica' che conteneva riferimenti impliciti e inquietanti all’omicidio. Per il gip "l'autore del componimento assiste all'omicidio, anzi ne è l'autore". E' stata una donna a riconoscere la calligrafia dopo che la lettera, mostrata da "Chi l'ha visto?" a partire dal 6 maggio 2009, è stata pubblicata sul quotidiano di Varese "La Prealpina". Nell’ordinanza il gip Giorgetti spiega inoltre che: Binda e Lidia Macchi si conoscevano "molto bene" ed erano "amici"; nel parcheggio dell'ospedale dove venne vista la macchina della ragazza quella sera c'era soltanto un'altra auto, una "Fiat 131 bianca", lo stesso modello che possedeva Binda all'epoca; l'uomo per la sua "frequentazione di tossicodipendenti" conosceva bene "le zone boschive" dove è stato trovato il cadavere.
Varese, 19/12/2016 - Il gup di Varese, Anna Azzena, ha rinviato a giudizio Stefano Binda, arrestato lo a gennaio di quest'anno con l'accusa di aver ucciso la studentessa di Varese Lidia Macchi nel gennaio 1987. Il processo si aprirà il prossimo 12 aprile.
I giudici della Corte d'assise di Varese hanno condannato all'ergastolo Stefano Binda, unico imputato per l'omicidio di Lidia Macchi. "Dopo trent'anni si aspettava una sentenza, penso sia giusto innanzitutto per Lidia, per i suoi familiari e per chi ha avuto modo di conoscerla", ha dichiarato l'avvocato della famiglia Macchi Daniele Pizzi, dopo la sentenza. "Siamo in coscienza convinti che la soluzione adottata sia ingiusta. E' una sentenza inaspettata anche se, trattandosi di un processo mediatico che ha fatto la storia di un tribunale, sapevo che il peso sarebbe stato notevole, non so poi se questo ha influito", è stato il primo commento dell'avvocato Sergio Martelli, difensore di Binda insieme alla collega Patrizia Esposito. "Penso sempre che i giudici arrivino a usare il buon senso - ha aggiunto - hanno ritenuto che sia stato colpevole, noi non abbiamo trovato elementi per una condanna, quindi aspettiamo le motivazioni e vedremo, andremo avanti".
La Corte d'Assise d'Appello ha respinto la richiesta del sostituto pg Gemma Gualdi, che aveva proposto di confermare la condanna all'ergastolo inflitta a Stefano Binda, in primo grado a Varese, per l'omicidio di Lidia Macchi. I giudici hanno ordinato l'immediata scarcerazione del 51enne, che era stato arrestato il 15 gennaio 2016. "Credo che servisse un minimo di approfondimento in più. Forse è stata una sentenza affrettata. Andremo avanti, Lidia non ce la restituirà nessuno, nemmeno questi trent'anni senza di lei", ha detto all'Ansa Stefania Macchi, sorella della studentessa uccisa nel 1987. Al centro del processo la lettera anonima "In morte di un'amica", ricevuta il giorno dei funerali dalla famiglia Macchi, per gli inquirenti scritta dall'assassino. Anni dopo, testimonianze e perizie recepite dalla sentenza di primo grado avevano indicato l'autore in Binda, ex compagno di scuola della ragazza. Un nuovo teste, l'avvocato Piergiorgio Vittorini, ha rivelato che un suo cliente si sarebbe attribuito la paternità della lettera. "Il segreto mi sta lacerando l'anima, ho una famiglia, ho dei figli. Ho scritto io la lettera", la confidenza riferita dall'avvocato, che non ha rivelato il nome del cliente avvalendosi del segreto professionale.
Omicidio Lidia Macchi: Assoluzione definitiva per Stefano Binda. La Cassazione ha rigettato i ricorsi della PG di Milano e delle parti civili contro la sentenza d'appello che lo aveva assolto per non aver commesso il fatto. I familiari: "Lo comprendiamo, non sono emerse prove a sufficienza per ritenere che sia stato l'assassino. In noi rimarrà per sempre la ferita di non aver trovato il colpevole”.